La tradizione del maiale

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In Calabria la tradizione del maiale è antica quanto il paese. E anche se col tempo il vero significato di questo rito è andato un po’ scemando, c’è ancora chi nelle campagne pietrapaolesi alleva i maiali per ricavarne i tipici e innumerevoli prodotti (salsiccia, soppressata, sanguinaccio…) da consumare tutto l’anno con le famiglie.

In passato la carne era un alimento decisamente pregiato. Ecco perché il giorno dell’uccisione del maiale veniva vissuto come una grande festa a cui nessun componente della famiglia avrebbe dovuto e voluto sottrarsi. L’acquisto del maiale avveniva un anno prima, alla Fiera della Ronza (fera era Runza) che si svolge, ancora oggi, nel vicino paese di Campana; qui i porcellini venivano svezzati e quindi venduti ai vari contadini, che orgogliosi trascinavano la preda nel porcile. A Pietrapaola tutti i porcili si trovano dietro la nota Timpa del Castello che sovrasta il paese. All’interno di ognuno vi è quello che viene notoriamente chiamato u scifu, ossia un vaso ricavato da una pietra calcarea cava o da legno anch’esso cavo, dove viene depositato il cibo per l’animale.

foto-a-017.jpgA questo punto il piccolo animale, ignaro della propria sorte, viene cresciuto come un pascià, ingozzato per tutto l’anno. Il cibo è costituito dagli avanzi della famiglia o da frutti di stagione. Solo da ottobre a dicembre, periodo premacellazione, il maiale viene solitamente nutrito di prodotti selvatici per far sí che la carne risulti migliore, più compatta.
Qualche giorno fa a Pietrapaola si è compiuto il rito della macellazione. Vediamone insieme lo svolgimento.

Il rito
La prima parte della descrizione che seguirà per fortuna non è più praticata; l’uccisione del maiale segue oggi la regolamentazione vigente in materia, che mira a ridurne le sofferenze: l’animale, infatti, all’atto del taglio alla gola è già privo di vita.

foto-a-024.jpgCome dicevano, la macellazione coinvolge sempre tutta la famiglia. Il maiale veniva prelevato dal porcile con due cordicelle legate a un piede posteriore e anteriore, questo serviva a farlo inciampare e a renderlo più vulnerabile. Quindi veniva condotto, tra grida acute, al posto appositamente preparato, coricato e immobilizzato. Qui, il più esperto della compagnia faceva il segno della croce sulla gola del maiale e poi vi affondava il coltello. Il sangue che ne fuoriesce, raccolto sul momento, viene rimescolato ben bene per evitarne la coagulazione e poi utilizzato per il tanto amato (e odiato dai più giovani) sanguinaccio a base di frutta candita, scorze di limoni e arance.

foto-a-038.jpgA morte avvenuta può avere inizio la tosatura con coltello ed acqua calda, solitamente l’animale ormai inerme viene posizionato all’interno della majilla, una cassa di legno (oggi, per la verità, un po’ meno utilizzata). La tosatura deve avvenire molto rapidamente, perché usando acqua bollente occorre evitare che la pelle si raffreddi. Alla fine di questa fase si appende il maiale a una trave del soffitto e lo si lava a fondo, lasciandolo in posizione verticale. Quindi l’animale viene spaccato e ripulito internamente: vengono tolte le budella dell’intestino e le altre interiora secondo il principio “non si butta niente”. Tutto infatti viene utilizzato e non soltanto in cucina.

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Da questo momento in poi protagoniste diventano le donne che devono lavare per bene con acqua calda e limone le budella grosse destinate alla soppressata; mentre per quelle piccole destinate al sozizzu (salsiccia) occorre togliere la parte grassa delle budella.

foto-a-0732.jpgLa giornata si conclude con un banchetto a base, naturalmente, di carne di maiale e del buon vino della casa. I piccoli, che spesso si allontanano per non vedere le scene di morte dell’animale, tornano a scorazzare intorno ai loro familiari e si preparano ad assaggiare le portate. Nella compagnia solitamente c’è sempre qualcuno che con la chitarra allieta il pranzo e scioglie la fatica.


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